Pasqua si avvicina, e per ogni buon santostefanese o portercolese, c’è un rito che nella settimana precedente non può assolutamente mancare: la preparazione delle schiacce di Pasqua. In questo periodo i forni riempiono le vetrine con le loro schiacce avvolte in sacchetti e nastri colorati, una gioia per gli occhi ed il palato, ma la soddisfazione di sfornarle personalmente, il venerdì santo, non ha eguali.
È un rituale che per me si ripete ogni anno fin da quando ho memoria; mamma che la mattina iniziava con la preparazione dell’impasto del pane, poi, il pomeriggio, quando questo era bello gonfio, allineava sul tavolo tutti gli ingredienti già pesati e pronti ad essere messi, ed io glieli versavo mentre lei impastava. Adesso la mamma che le prepara sono io, e le mie figlie le piccole aiutanti volenterose. Gli ingredienti sono tanti, la fatica per realizzarle pure, un lavoro di braccia non indifferente cui ci sottoponiamo con gioioso entusiasmo. Con soddisfazione sentiamo l’impasto “respirare” fra le nostre mani, e dopo esserci riempite gli occhi della sua vista lo versiamo nelle teglie fino a metà, le copriamo ben bene quasi fossero delle creature per non fargli prendere gli spifferi d’aria che possano bloccarne la lievitazione, e via a sperare che lievitino come si deve. È il pensiero stesso di controllarle a darti la sveglia in piena notte, e quando le trovi già in cima al bordo ecco che ti tocca infornarle. A volte capita in piena nottata. Quel profumo di anice che si spande per casa e addirittura fuori la strada, fa subito Pasqua, mentre la vista di quelle schiacce belle alte, e così buone, ripaga di ogni fatica.
Nei tempi in cui non tutti ancora avevano il forno elettrico a casa, per la cottura si prenotavano presso il panificio di fiducia, e allora la famiglia partiva all’ora stabilita, ognuno con una teglia da tenere bella in piano e senza troppi scossoni altrimenti si rovinava la lievitazione. Lasciavano il tutto al fornaio, per poi tornare a prendere il prezioso bottino a cottura ultimata. Chi invece viveva in campagna ed aveva un camino si apprestava a compiere quel rito annuale personalmente, mantenendo la temperatura sempre costante per poi aggiungere legna quando la lievitazione era ormai giunta al punto desiderato, che era solitamente la nonna a stabilire, per poi cuocerle all’interno del forno a legna.
Eh sì, i tempi cambiano, ma come tutte le buone usanze che ci tramandiamo da tempo immemore, la passione per le schiacce di Pasqua da noi non passa mai.
Perché in fondo, per alcuni è solo un dolce, ma per un vero abitante dell’Argentario non è Pasqua senza la schiaccia. Non è Pasqua se camminando per le vie del paese non vieni raggiunto dal profumo intenso e dolce dell’anice.
Con questo doveroso tributo alla nostra antica schiaccia, spero di aver solleticato il vostro appetito.